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Sandro Lombardi. La parola e il sacro

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(fonte immagine)

Sandro Lombardi non è soltanto uno degli attori più talentuosi e versatili della scena teatrale italiana. Soprattutto, è un interprete di rarissimo garbo e profonda cultura, come testimonia la cura e il rispetto con cui è in grado di affrontare autori diversissimi. Solo recentemente lo abbiamo ammirato, a Roma, ne Il Ritorno di Casanova di Schnitzler al Teatro India, e pochi giorni dopo in una commovente lettura del primo capitolo della À la recherche du temps perdu di Marcel Proust al Teatro di Villa Torlonia.

Dal 27 Febbraio al 29 Marzo sarà al Teatro Argentina con una versione dell’Antigone di Sofocle, sempre per la regia del suo sodale Federico Tiezzi. Ecco la nostra conversazione, in cui emerge senza bisogno di ulteriori commenti il grande spessore culturale dell’attore.

Il ritorno di Casanova è l’ennesima collaborazione con Federico Tiezzi. Un sodalizio trentennale, se non erro.

In realtà la nostra è una collaborazione quarantennale. Con Tiezzi ci conosciamo da quando avevamo 12 anni, abbiamo cominciato a fare teatro quando ne avevamo 18-19 e poi è andata avanti così.
Il ritorno di Casanova è stata una proposta di Federico Tiezzi, un’idea sua. Mi propose di fare un semplice recital, ovvero una semplice lettura con me e il semplice microfono. Lui fece dei tagli, ideò una struttura, rivide la traduzione, insomma fece tutto il lavoro preparatorio sul testo di Schnitzler. Io me ne innamorai talmente tanto che dissi “No io questa cosa la voglio fare a livello spettacolare, per quanto semplice” e quindi mandando a memoria il testo, mettendo in campo almeno un altro attore, con la presenza di musicisti: una cosa che è cresciuta, si sviluppata felicemente in scene e costumi per quanto relativamente semplici.

Sì, ma in modi molto suggestivi, rispetto anche a vostre rappresentazioni passate. La scena qui è scarna, ma ricrea perfettamente l’atmosfera del racconto.

Grazie. Ti dicevo, questo testo, che per altro non conoscevo, pur essendo io un grande amante non solo di Schnitzler ma di tutta la letteratura mitteleuropea, soprattutto di quel periodo, di fine impero(autori come Hofmannsthal, Joseph Roth… ) però questo testo mi era sfuggito, non l’avevo letto. E  me ne innamorai pazzamente, perché è un racconto meraviglioso.

Perdona l’ignoranza, è una creazione di Schnitzler o è ispirata a una memoria reale di Casanova?

No, credo che sia tutto di Schnitzler.

Tipico di Schnitzler, del resto, confondere appunto sogno e realtà…

Sì e anche qui è straordinario appunto; in questo racconto si tocca per l’ennesima volta il tema del sogno, della confusione che è il sogno e la realtà e questo sogno in cui cade Casanova dopo essere riuscito a ottenere il corpo di Marcolina sarà quello su cui Casanova si arrovellerà sin dall’inizio del testo, cioè l’orrore e il rifiuto di riconoscere la vecchiaia, la perdita della giovinezza.

Interessante, dal punto di vista narrativo, che l’opera finisca in un certo senso come inizia il Don Giovanni di Mozart, che Casanova vide a teatro a Praga alla prima. Addirittura a casa di Mozart a Vienna, esposta nel museo, c’è una pagina di Casanova, che ha cambiato le parole di un’aria dell’opera, dedicandosela a se stesso.

Molto interessante. Del resto, si era riconosciuto, anche se erano due figure molto diverse, però unite da questo divorante bisogno, non tanto di sessualità, secondo me, ma di conquista, di veder riconosciuta la propria identità, cioè sono due individualità che si sentono mancare la terra sotto i piedi, dal punto di vista proprio della propria identità e Casanova si riconosce come uomo felice, come uomo realizzato solo nel momento in cui riceve da parte di una donna uno sguardo di attenzione e di fatti lo spunto del racconto di Schnitzler è proprio questo : la giovane Marcolina seduce Casanova, non per la sua bellezza; la definisce “una ragazza delicata”, insomma, niente di particolare da un punto di vista fisico per attrarre Casanova, se non, da un lato, la giovinezza, che è uno dei temi del racconto (in antitesi alla vecchiaia che sta divorando il personaggio), dall’altro il fatto che non lo guarda con attenzione, con indifferenza e questa cosa per Casanova risulta intollerabile. Tutto il discorso sul conflitto giovinezza-vecchiaia e per altro poi reso complesso anche con il confronto con il giovanissimo, bellissimo e prestante sottotenente Lorenzi. Casanova si trova a dover competere con un’immagine che gli ricorda se stesso giovane, ovvero con un giovane cinico, spregiudicato, bello, audace: qualità che erano state, come Schnitzler fa più volte ripetere al personaggio “lei è giovane e bello com’ero stato io un tempo”, “a lei spetterà un destino meraviglioso, quale fu il mio una volta” e quindi c’è questo gioco di specchi, il tutto poi proiettato – il racconto è del 1918, quindi l’Impero Asburgico era già crollato – in questa nostalgia, in questo ricorrere continuo degli scrittori e musicisti austriaci al Settecento, all’epoca ideale. Mi viene in mente “Il cavaliere della rosa” che è di poco prima, realizzata da due dei massimi Hugo von Hofmannsthal come librettista e Strauss come compositore; nomi che mi fanno venire in mente il “Capriccio”, sempre di Strauss. Questo continuo sognare e proiettare i propri sentimenti e problemi in questa epoca magica e miracolosa apparentemente felice che era il Settecento. Il XVII è definito il secolo più felice della Storia.

C’è un testo che potrebbe rientrare in questo discorso. Ho conversato recentemente con Benedetta Craveri, che ha scritto Gli ultimi libertini, un libro assolutamente pertinente, perché appunto questi libertini è come già se presentono l’imminente Rivoluzione che avrebbe poi spazzato la loro società felice. Eppure da un lato sono loro ad auspicarne l’avvento.

Guarda, poco prima che mi citassi questo libro io ti stavo arrivando a parlarti di Watteau e di una declinazione francese di quella struggente malinconia che pur nel secolo felice Watteau racconta, come del resto Mozart. Loro percepivano che quel loro mondo stava per finire e due secoli dopo, a cavallo tra Ottocento e Novecento, i grandi scrittori, compositori, pittori della Vienna di quel periodo trovandosi in una situazione analoga, di percezione di un mondo che sta per finire, si rivolgono di preferenza a quel secolo, proprio al Settecento, in cui appunto questa malinconia di questo mondo che si sta per perdere è stata messa a fuoco e definita, colta e raccontata in maniera magistrale.

Quasi contemporaneo, sempre sul discorso della memoria e del passato e della trasfigurazione letteraria del passato questa volta individuale, non possiamo non evocare Proust. Sono testi molti diversi, ma che hanno una sorta di affinità elettiva sotterranea.

Be’, certo, in questa capacità quasi magica, quasi stregonesca di evocare, di resuscitare un tempo che non c’è più. Proust è forse il più grande in questo senso, proprio questa sua capacità di evocare tutti i dettagli, tutti i profumi, tutti i sapori, tutte le immagini di un tempo perduto. E Schnitzler compie un’operazione analoga. Mi viene in mente Kafavis: tutto un altro ambiente, in tutto un altro mondo, che è anche un altro scrittore e poeta in questa caso, che al contrario di Proust che ha scritto miliardi di parole, Kafavis ne ha scritte poche centinaia, però condivide con Proust e con Schnitzler questa capacità rabdomantica, proprio stregonesca di evocare un mondo che non c’è più e per il quale si ha una grande nostalgia.

Mentre appunto per Proust, in questo caso, avete scelto la lettura e non la messa in scena…

Per Proust abbiamo scelto, in un primo tempo, anche la rappresentazione spettacolare, infatti abbiamo realizzato Un amore di Swann che non è mai stato a Roma, uno spettacolo del 2012, del quale io avevo fatto la riduzione drammaturgica per tre personaggi personaggi: mettevamo in scena Charles Swann, Madame Verdurin che era Iaia Forte, e Odette de Crecy, il grande amore, il grande tormento di Swann, che era Elena Ghiaurov.

Qual è, secondo te, la qualità peculiare della grandezza di Proust?

Oltre a quelle di cui parlavamo poco fa, direi la complessità, la capacità di aver eretto un monumento davvero grandioso che raccoglie tutta la cultura del suo tempo diventando oltre un romanzo, diventando un libro sapienziale. Non a caso il libro più citato all’interno di Alla ricerca del tempo perduto è l’Antico Testamento, e veramente fa pensare a una Bibbia della Maternità.

Anche ad una sorta di enciclopedia tribale della Parigi della sua epoca.

Già.

Una cosa che a me ha sempre affascinato, della tua attività, è la grande capacità di saper restituire autori e atmosfere molto differenti. Io ho amato molto il Calderon di Pasolini che avete fatto all’Argentina. Ad esempio, in quel caso, l’impianto scenografico era importante, sontuoso.

Sì, però era anche molto vuoto. Sia nella staticità delle figure che nell’importanza dell’apparato scenografico. Tiezzi in genere ama gli spazi vuoti, cioè dei contenitori che possano lasciare molto spazio d’azione principalmente al lavoro degli attori.

Quando ci incontrammo l’ultima volta, parlavamo dell’attualità del testo e leggendo la cronaca di questi giorni  mi sembra che siamo stati profetici, come Pasolini prima di noi.

Purtroppo, sì. Stanno succedendo delle cose davvero agghiaccianti. In Italia è come se la sinistra avesse tempo fa abbandonato il suo punto di riferimento principale e cioè i lavoratori, soprattutto quelli più disagiati, e questi si rivolgono a a forze populiste o addirittura eversive come il fascismo.

Esatto. Mi ricordo che quando parlammo di Pasolini, tu hai insistito molto su un punto: nonostante il finale tremendo e agghiacciante dell’opera, nel teatro di Pasolini rimane alta la fiducia nella Parola.

Ah, beh, questa è assoluta. Quasi sacralizzata la parola.

Una cosa che mi ha sempre affascinato è il fatto che tu sei stato tra i pochi ad avere il coraggio di portare in scena dei testi molto difficili di Giovanni Testori.

Sì, quelli sono stati dei momenti importanti della mia vita d’attore, molto importanti.

Ricordo di averti scoperto e amato proprio come interprete testoriano. Mi ricordo I Tre Lai nel ‘99.

Esatto… di Testori, il mio primo spettacolo fu Oedipus, che era del ‘94. Poi, sempre con la regia di Federico Tiezzi, la Cleopatràs, poi successivamente, gli altri due lai, ovvero l’Erodias e la Mater Strangoscias. Poi abbiamo fatto anche I Promessi Sposi alla prova, poi una serie di recital testoriani con le sue poesie, i suoi scritti d’arte e così via.

Ricordo che una volta ti incontrai sul tram, a Trastevere,  stavi andando al Teatro India e parlammo molto di Testori e, correggimi se sbaglio, lodasti molto la capacità che aveva di usare nei suoi romanzi un italiano castigatissimo manzoniano…

Certamente, e nel teatro questa esplosione linguistica.

Esatto, un’esplosione che poi sfociava anche nel turpe, nel greve…

Eh, sì. Perché in quegli anni poi scrisse un ultimo romanzo bellissimo, Gli angeli dello sterminio. Quasi un Manzoni depurato, essenzializzato, cristallizzato; mentre In Exitu c’è questo magma linguistico che ancor più che raccontare esprime il tormento interiore del protagonista del romanzo, questo ragazzo drogato che si vende, si prostituisce per trovare i soldi per la dose.

Con dei picchi quasi blasfemi…

Assolutamente, l’ultima immagine straordinaria del ragazzo che morendo vede nella goccia di eroina che cade dalla siringa vede l’immagine del crocifisso.

Il confronto per me è stato fatto in maniera sempre un po’ ideologica. Quali sono le affinità e le divergenze, per usare un’espressione da vecchio comunicato cinese, tra Pasolini e Testori?

Dunque,  il punto in comune più forte e più importante, secondo me, è il fatto che sono stati entrambi allievi di Roberto Longhi; quindi che tutto il loro lavoro sia letterario, figurativo, parta comunque da una radice d’immagini, che Pasolini ha poi meravigliosamente utilizzato nel cinema (tutto il Vangelo, il Manierismo, il Pontormo ne La ricotta); e poi hanno in comune una omosessualità vissuta in entrambi i casi in maniera estremamente drammatica, estremamente dolorosa e sofferta; una religiosità comune, anche se Pasolini si è sempre dichiarato laico (dal punto di vista della fede è così), ma culturalmente è profondamente cristiano: tutti i suoi riferimenti (le chiese, le pale d’altare, L’usignolo della Chiesa Cattolica, l’uso della Passione di Bach come commento di Accattone).

Sì, Pasolini diceva di essere scandalizzato dalla mancanza di senso del Sacro dei suoi contemporanei…

E infatti, lui ri-sacralizzava, come Testori. E questo loro bisogno in comune di dissacrare, molto presente soprattutto nel teatro di Testori, parla di dissacrare per, questo me lo disse Mario Luzi quando venne a vedere la mia prova di Oedipus, mi disse: “Curioso questo bisogno che si sente nella scrittura di Testori di dissacrare, ma in realtà non per distruggere, ma per risacralizzare, per riaffermare l’esistenza del sacro.”

Adesso, chi cerca disperatamente il sacro come Lars Von Trier o, in un certo senso, Lynch va sempre sotto il segno dell’Unheimliche freudiano, cioè sempre alla ricerca del perturbante, non ci sono quelle epifanie che anche Pasolini, pur nel suo tormento dionisiaco, ha proposto.

Sono due grandi, comunque. Io amo particolarmente Lynch, non riesco ad amare Von Trier, perché mi sembra sempre eccessivamente sadico. Lynch invece ha questa meravigliosa innocenza con cui riesce a guardare il male. Una storia vera è un film molto particolare, in cui Lynch espone, racconta e rivela il suo lato senza inquietudine, poi in realtà c’è qualcosa anche lì, però c’è questa capacità e questo coraggio di costruire un film tutto impostato sui buoni sentimenti, senza paura di cadere nella retorica. Riesce a fare un libro Cuore senza la retorica del “Libro Cuore”, ma anzi con una poesia meravigliosa. Una storia vera lo considero uno dei più bei film che io abbia mai visto.

Abbiamo parlato tante volte in passato, di Carmelo Bene. Oltre a lui, quali sono le tue figure di riferimento? Tu hai collaborato con tantissimi grandi nel tuo percorso. Quali sono i punti di riferimento del teatro italiano con i quali tu hai avuto un rapporto diretto e indiretto di ispirazione?

Mah, sono infiniti. Perché ti potrei parlare di quelli da spettatore, quando prima di diventare attore, il teatro semplicemente lo vedevo compulsivamente: quindi le folgorazioni del Il Giardino dei Ciliegi di Strehler, oppure di Pirandello o l’apparizione di Living Theatre in Italia, il Dante di Grotowsky, l’Orestea di Peter Stein (quando la vidi a Ostia), l’altra Orestea di Ronconi, l’Utopia di Ronconi, quella sui testi di Aristofane.
Poi, certamente, Carmelo Bene. Lui è passato alla storia come “grande attore” e nessuno vuole discutere sulla sua figura come attore, però si rischia di dimenticare la sua grandezza di regista. Questo lo dico da spettatore. Poi ci sono le persone con cui sono venuto invece a contatto, estremamente diverse l’una dall’altra: da Orazio Costa, grande maestro di recitazione, a Giancarlo Cobelli o Luca Ronconi con cui ho fatto un laboratorio importante, proprio due anni prima che ci lasciasse. Insomma, tanti, tanti. Mi è sempre piaciuto molto entrare in contatto con le persone: il teatro è un lavoro che non si fa in solitudine, ma in relazione.

Cosa significa portare in scena l’Antigone di Sofocle oggi?

Per parlare dell’Antigone di Sofocle si dovrebbe intavolare un seminario evocando i massimi grecisti e filosofi viventi e possibilmente anche quelli defunti.

Come Heidegger e Nietzsche.

E anche Hegel, o Holderlin…

Loro due si occupavano di quei temi con Schelling fin da quando condividevano la loro stanzetta universitaria  a Tubinga…

Sì, perché l’Antigone è uno di quei pilastri della cultura occidentale di cui – lo dico mentre ci lavoro ormai da un anno – ti accorgi che non si esaurisce mai. Un testo impossibile da poter essere esaurito in un’unica interpretazione. Tutte le interpretazioni sono in parte convincenti, in parte meno, tutte le interpretazioni colgono un qualche aspetto di questa opera, che appunto, ti ripeto, fonda la cultura dell’Occidente da tutti i punti di vista: dal punto di vista dei valori familiari, sociali, dei valori religiosi, dei valori giuridici, dei valori politici e così via. E dei rapporti erotici, addirittura! Tu mi chiedi che significato può avere rimetterla in scena adesso: è un traguardo, in quanto attore,in quanto teatrante. è il massimo che uno può sperare di poter fare. Cioè, proprio trovarsi a contatto con un’opera così – non solo con l’Antigone, chiaramente. Ma con Sofocle è particolarmente impressionante avere tra le mani dei versi di circa 2500 anni fa, che sembra che ci parlino di noi. Ma non voglio parlare tanto di attualità, semplicemente sottolineare il fatto che quei versi hanno un valore che trascende il tempo, nonostante i cambiamenti.

Il Living Theatre ne fece una famosa versione attualizzata contro la guerra in Vietnam, ad esempio.

Il Living Theatre ne fece una versione entusiasmante, per me che all’epoca avevo 17 anni e che oggi non mi sentirei più di condividere. Continuerei ad esserne entusiasta dal punto di vista estetico, ma non da quello ideologico. Nel senso che il Living prendeva una posizione netta, infatti mise in scena non l’Antigone di Sofocle ma l’adattamento drammaturgico che aveva fatto Bertolt Brecht, il quale aveva dato un taglio in cui – a differenza di Hegel, che sosteneva l’equivalenza delle due posizioni di Antigone e Creonte – si schierava nettamente dalla parte di Antigone idealizzandola, direi in maniera tanto romantica, come un’eroina giovane, idealista, meravigliosa, naturalmente amabile. Ne fece un’eroina, che divenne un’eroina pre-sessantottesca. Tutto questo aveva un senso nel ‘43, mi pare, quando Brecht fece questo lavoro, poi nel ‘67, quando il Living la mise in scena, cioè coincideva con momenti storici di rivoluzioni e rivolte giovanili, o meglio: nel caso di Brecht, coincideva con la fine della guerra, con l’orrore appena visto, soprattutto in un paese come quello di Brecht, che era la Germania e quindi lui aveva fatto di Creonte una sorta di controfigura di Hitler, del coro dei vecchi tebani erano i grandi industriali, quindi c’era una divisione del tutto manichea. Ora non è così – e nemmeno allora, ma non si può leggere questo testo schierandosi totalmente in una delle due parti.

Una delle letture più affascinanti che ho fatto negli ultimi tempi, sono alcuni saggi di Umberto Curi, dove si dice sostanzialmente che l’enorme tragicità dell’Antigone di Sofocle, non è tanto nello scontro tra posizioni diverse: da un lato quella di Creonte, difensore delle leggi scritte e difensore dell’ordine pubblico; dall’altro lato, la posizione di Antigone, che difende invece le leggi non scritte degli dei e degli uomini, le leggi ataviche, arcaiche dell’amore, della famiglia e così via. E questo conflitto può essere letto in mille modi diversi (puoi stare dalla parte di Creonte, puoi stare dalla parte di Antigone, una giovane idealista, ma anche una fanatica religiosa). In realtà, secondo me, non è tanto una questione di scegliere da che parte stare, ma di rendersi conto che la tragicità dell’opera risiede, come nel caso dell’Edipo Re, nell’inevitabilità di un destino feroce, che, partendo appunto dalla stirpe di Labdaco, poi Laio, Edipo, i figli di Edipo – avuti per altro in maniera incestuosa, dalla madre Giocasta – porta inevitabilmente, a NON rendersi conto di stare lottando verso l’impossibile; e secondo Curi, e mi sembra molto interessante, la posizione di Sofocle è racchiusa in un personaggio apparentemente minore, sempre considerato debole, cioè Ismene, la quale dice: “è inutile lottare contro l’impossibile”; è l’unica che si rende conto di qual è il destino tragico della stirpe di Labdaco/Edipo.
Quello di trovarsi a pretendere di sconfiggere il Destino.

Adriano Ercolani è nato a Roma il 15 giugno 1979. Appena ventenne, ha avuto il piacere di collaborare con Giovanni Casoli nell’antologia Novecento Letterario Italiano e Europeo. Si occupo di arte e cultura, in varie forme dalla letteratura alla musica classica e contemporanea, dal cinema ai fumetti, dalla filosofia occidentale a quella orientale. Tra i suoi Lari, indicherei Dante, Mozart, William Blake, Bob Dylan, Charles Baudelaire, Carmelo Bene, Andrej Tarkovskij e G.K. Chesterton. È vicepresidente dell’associazione di volontariato InnerPeace, che diffonde gratuitamente la meditazione, come messaggio di pace, nelle scuole e nei campi profughi di tutto il mondo, dalla Giordania al Benin, dal Libano a Scampia.
Nel suo blog spezzandolemanettedellamente riversa furiosamente più di vent’anni di ricerca intellettuale. Tra le sue collaborazioni: Linkiesta, la Repubblica, Repubblica-XL, Fumettologica e ilfattoquotidiano.it.

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